Spesso alle neomamme viene ripetuto dalla zia Ignazia di turno: “fanne subito un altro, così fai meno fatica, crescono vicini e non devi ripetere i passaggi stressanti dopo molto tempo ricominciando tutto daccapo!”. Sarà, ma una mamma fresca fresca di parto spesso non pensa a questo, ma a godersi il suo pargolo e a spostare il più in là possibile i dolori del parto, no?

Scherzi a parte, sembra che fare un figlio subito dopo il primo non sia poi così auspicabile, ma non tanto per la fatica che questo implica o per il ripetersi del dolore del parto. No. A sconsigliarlo è uno studio scientifico che a quanto pare ha trovato una correlazione tra due gravidanze vicine e il parto prematuro durante la seconda.

Gravidanze vicine? Il rischio è il parto prematuro: meglio aspettare dopo il primo figlio per evitare il pericolo di un parto prematuro

Lo studio al quale ci riferiamo si intitola più genericamente “l’influenza dell’intervallo intra-gestazionale sui tempi del parto” ed è stato pubblicato su Bjog, International Journal of Obstetrics and Gynaecology, nel 2014, dopo essere stato presentato all’annuale meeting della Central Association of Obstetricians and Gynecologists del 2013 a Napa, in California.

Tra i risultati si legge esattamente che due gravidanze troppo vicine possono aumentare il rischio di parto prematuro. Ma cosa si intende per “vicine”? Quanto tempo deve passare perché possano essere definite tali?

Possiamo dividere le “gravidanze vicine” in due gruppi: il primo è quello delle donne che rimangono incinte meno di 12 mesi dopo alla prima gravidanza; il secondo quello delle mamme che aspettano tra i 12 e i 18 mesi successivi. Attendere dopo i 18 mesi dovrebbe essere l’ideale, perché è passato un buon intervallo di tempo.

I numeri, infatti, parlano chiaro. Lo studio statunitense ha preso in considerazione 454.716 nascite avvenute da donne che hanno avuto almeno due figli nel periodo di sei anni. Le mamme rimaste incinte meno di 12 mesi dopo la prima nascita hanno sofferto, nel 53% dei casi, di parto prematuro prima delle 39 settimane di gestazione, e cioè prima del termine, e avevano il doppio del rischio di partorire addirittura prima di 37 settimane (il 20%, rispetto al 7% delle mamme che sono rimaste incinte dopo 18 mesi). Per le mamme che invece avevano aspettato i 18 mesi questa percentuale scende al 37 percento.

Lo studio ha sottolineato anche come l’etnia possa essere un fattore determinante quando si parla di tempi di gestazione in relazione all’intervallo tra le gravidanze, poiché le donne nere che hanno concepito il loro secondogenito dopo meno di 12 mesi dal primo si sono rivelate molto più a rischio delle donne di altre etnie. Anche nel caso di un intervallo ottimale, e cioè di 18 mesi: l’11% ha partorito prematuramente, a differenza del 6% delle donne non nere.

Questo studio è molto importante perché diventa uno strumento da non sottovalutare quando si parla di prevenzione e di consulto. I medici, infatti, considerando i fattori di rischio di ogni madre potranno così valutare ancora meglio le circostanze, consigliando al meglio le donne in base alla loro storia e alla loro anamnesi, tenendo conto del fatto che anche l’intervallo tra le gravidanze (che, come dicevamo, adesso sappiamo essere ottimale quando uguale o superiore a 18 mesi) potrebbe o non potrebbe essere un fattore di rischio.

 

Mamma Pret a Porter non è una testata medica e le informazioni fornite hanno scopo puramente informativo e sono di natura generale, esse non possono sostituire in alcun modo le prescrizioni di un medico o di un pediatra (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione), o, nei casi specifici, di altri operatori sanitari (odontoiatri, infermieri, psicologi, farmacisti, fisioterapisti, ecc.) abilitati a norma di legge. Le nozioni sulle posologie, le procedure mediche e le descrizione dei prodotti presenti in questo sito hanno un fine illustrativo e non devono essere considerate come consiglio medico o legale. 

Avevamo già parlato dell’hygge, e cioè la filosofia danese che fa sì che i genitori danesi crescano figli felici affidandosi alla confortevolezza, allo stare bene, alla soddisfazione e al sentirsi sicuri in famiglia.

Al Nord, tuttavia, ogni paese ha la sua parola magica che ci viene in aiuto nella ricerca della felicità. In Svezia, ad esempio, di parla di lagom, che si legge esattamente come si scrive e che racchiude un mondo bellissimo!

Dopo l’hygge il lagom, un nuovo concetto svedese per la felicità: il concetto scandi di moderazione ed equilibrio per il raggiungimento della serenità familiare

Se l’Hygge prevedeva la ricerca della comodità nelle piccole cose, il Lagom svedese è un po’ diverso, ed è più una filosofia di vita in generale, piuttosto che un qualcosa da ricercare giorno per giorno, volta per volta. Insomma: quando inizi a praticare il Lagom, questo entra naturalmente nella tua vita e lì ci rimane.

Il Lagom, in parole spicce, è la ricerca della moderazione e nell’equilibrio in tutto quello che facciamo. Significa letteralmente “la giusta quantità” e racchiude l’idea che è possibile raggiungere tranquillamente un equilibrio salutare con il mondo senza dover stravolgere la nostra vita ma solo moderandoci (senza tuttavia negarci nulla). Quando nella nostra vita ci sono equilibrio e bilanciamento, moderazione e non esagerazione, in effetti, poi si sta meglio, no?

Rispetto all’Hygge, quindi, il Lagom coinvolge anche il mondo esterno e la natura, e non solo noi stessi e la nostra famiglia, poiché la moderazione deve essere raggiunta nelle situazioni e nelle emozioni ma anche nel concreto, e cioè senza esagerare sul cibo e mantenendo uno stile di vita regolare.

Come fare, allora, per raggiungere il Lagom? Ecco qualche piccola regola che dovremmo prendere come abitudine per trovare in noi stessi e nella nostra famiglia l’equilibrio scandi e il concetto di “la giusta quantità”.

- Partendo da qualcosa di “astratto” ma che coinvolge direttamente la vita concreta, se vogliamo fare spazio al Lagom nella nostra vita dobbiamo iniziare a pensare se le nostre attività sono bilanciate. E cioè: quanto tempo passiamo al lavoro? Quando a casa? Quanto con i nostri figli? Quanto da soli? Tutto dovrebbe avere la giusta quantità di tempo da dedicargli, senza sforarla ma nemmeno senza sacrificarla.

- La moderazione la si raggiunge prima di tutto sul cibo e sull’alimentazione. Non bisognerebbe mai esagerare, e nemmeno mangiare troppo poco, variando sempre in modo che ogni alimento abbia il suo giusto spazio. Non esagerare, tuttavia, non significa nemmeno privarsi per forza di qualcosa. Se amate così tanto quella torta ipercalorica al cioccolato e fragole, quindi, non eliminatela per sempre dalla vostra tavola, ma tenete un angolino di spazio alla domenica per gustarvela e sentirvi così soddisfatti!

- Comprate meno, fate meno shopping inutile, scegliete bene: il Lagom passa anche dal portafoglio, che saprà anche ringraziarvi una volta raggiunto l’equilibrio! Piuttosto di comprare indiscriminatamente tutto solo perché sentite di doverlo assolutamente avere, pensate, prima di strisciare la carta, a se davvero quella cosa vi serve. E concentratevi sempre sulla qualità piuttosto che sulla quantità: il fast fashion ormai ci ha abituati ad avere gli armadi straripanti di abiti di fattura non bellissima; torniamo un po’ alle origini, e scegliamo abiti belli, che davvero ci piacciono e che dureranno di più nel guardaroba!

- Eliminate il superfluo dalle vostre vite, sia in senso materiale sia affettivo. Una casa minimal significa una casa con più spazio per ciò che è importante. Un po' come insegnano Marie Kondo e il suo "Il magico potere del riordino": c'è un perché se questo libro è diventato un bestseller e un cult, e come potremmo quindi non consigliarlo quando si parla di Lagom? E per quanto riguarda le relazioni personali, lasciate perdere le amicizie fatte di “per forza” e di consigli non richiesti: concentratevi su chi davvero amate!

- Siate grati di ciò che già avete, godetevelo e vivetelo prima di decidere di passare ad altro così, su due piedi, perché in quel momento vi va! Appena imparerete a farlo vi riuscirà perfettamente in tutti i campi della vita e lo spreco, in questo modo, sarà sostituito dall’equilibrio!

 

 

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Spesso quando un bambino non arriva la prima a preoccuparsi è la donna. Forse è normale, dal momento che sarà lei a portare questo bimbo per nove mesi nella sua pancia, e fisicamente la sensazione è quindi più forte. Ma il problema non è detto che sia automaticamente femminile, anzi. Anche da parte dell’uomo può esserci qualche difficoltà. Ma purtroppo spesso il tema fertilità maschile è un tabù e recarsi dal medico è l’ultima spiaggia.

Non dovrebbe essere così, tuttavia. E per rendere le cose più tranquille, intime, casalinghe e meno spaventose c’è un modo: il test di fertilità maschile da fare in casa.

Il test di fertilità da fare in casa. Per uomini! Quando per scoprire se qualcosa non va basta una piccola verifica semplice e veloce

Ne abbiamo parlato con chi questo tema lo tratta quotidianamente. Swimcount è infatti un’azienda che produce test di fertilità da utilizzare a casa per uomini, uno strumento che permette di valutare la qualità degli spermatozoi del maschio, in modo da farsi un’idea della loro motilità. Ci siamo così fatte le domande più comuni e le abbiamo girate a loro, in modo da capire meglio cosa si può fare.

Quali sono le principali cause dell’infertilità maschile? E come lo stile di vita impatta sulla motilità degli spermatozoi?

I motivi sono molti, tuttavia i più comuni sono il varicocele e l’aumento della temperatura scrotale, i disturbi endocrini, anomalie genetiche, congenite o acquisite, tumori oppure infezioni e fattori immunologici. L’età, l’obesità, le esposizioni ad agenti chimici e fisici, l’inquinamento, il fumo, l’alcool e le droghe aumentano poi questo rischio di infertilità.

Gli spermatozoi e la loro motilità vengono quindi influenzati anche dallo stile di vita, sì. L’obesità provoca una ridotta secrezione sierica del testosterone (responsabile della spermiogenesi); il fumo compromette la motilità e la morfologia spermatica; l’alcool deteriora i parametri dello sperma e porta a patologie testicolari; troppi grassi inficiano la qualità dello sperma.

In Italia quanti sono gli uomini che hanno difficoltà di concepimento?

Purtroppo, in Italia come nel mondo, la fertilità è spesso associata al concetto di virilità, anche se non è affatto così. Di conseguenza gli uomini non ne parlano, o hanno paura a chiedere informazioni e a farsi visitare. Tuttavia la SIAMS (Società Italiana di Andrologia e Medicina della Sessualità) mostra un quadro non troppo rassicurante: i ragazzi italiani tra gli 0 e 18 anni soffrono per il 27% di problemi della sfera sessuale (come varicocele, criptorchidismo e altri), e gli uomini dai 18 ai 50 anni sono affetti per il 40% da patologie andrologiche.  Secondo l’OMS l’infertilità è una problematica che colpisce il 15%-20% delle coppie, ciò significa che su scala mondiale sono infertili 50-80 milioni di soggetti.

In Italia, secondo alcune rilevazioni ISTAT, ci sono circa 15 milioni di coppie (dati riferiti al 2008-2009). Incrociando il dato dei 15 milioni di coppie italiane con il dato del WHO che ci dice che il 40% dei problemi di infertilità di coppia in Italia è dovuta esclusivamente al fattore maschile e il 20% a fattori sia maschili che femminili, si conclude che in Italia ci sono almeno circa 1.200.000 coppie infertili dovute a problematiche del partner maschile.

Cos’è allora SwimCount e come si usa?

SwimCount nasce dalla ricerca danese, è prodotto in Danimarca e si basa sul principio tecnologico dello Swim-up, nota e consolidata tecnica impiegata nei laboratori di fecondazione di tutto il mondo svolta per la rilevazione degli spermatozoi motili e loro purificazione dagli altri tipi di spermatozoi presenti nello sperma.

È un test usa e getta utile per dare un primo, semplice, rapido e affidabile risultato sulla qualità del liquido seminale. In questo modo la coppia può prendere coscienza velocemente di un eventuale problema di infertilità maschile e intraprendere il prima possibile un percorso specialistico (il test infatti non sostituisce lo spermiogramma e le analisi di approfondimento, ma aiuta subito a capire se ce n’è bisogno).

L’utilizzo è davvero semplice. Basta raccogliere un campione di fluido nel bicchierino e lasciarlo fluidificare per 30 minuti. Dopodiché con l’apposita siringa presente nel kit lo si preleva e lo si dispensa sul pozzetto di lettura. Dopo 30 minuti ecco il risultato, di tipo colorimetrico: in base all’intensità del colore possiamo leggere se la fertilità è bassa (spermatozoi motili inferiori a 5 milioni per millilitro), normale (compresi tra 5 e 20 milioni) o alta (sopra i 20 milioni).

E per quanto riguarda l’affidabilità?

SwimCount è stato rigorosamente testato e comparato con sistemi di analisi standard e di analisi computerizzati. I risultati hanno confermato che SwimCount ha una accuratezza del 95%, una specificità del 91% e una sensibilità del 96%. Non solo: se gli altri test casalinghi danno un risultato semplicemente quantitativo, SwimCount lo dà qualitativo, poiché, dal momento che nello sperma sono presenti diversi tipi di spermatozoi (normali, morti, poco motili...), il nostro test non li conta indistintamente, ma considera solo quelli effettivamente motili.

 

Quindi, è molto importante fare questo test casalingo...

Esatto, perché può aiutare a prendere coscienza di un eventuale problema di infertilità e guadagnare così tempo prezioso per diventare finalmente genitori. SwimCount può aiutare a fare chiarezza a quale dei due partner sia da imputare l’infertilità di coppia andando ad escludere o confermare che sia il partner maschile e indirizzare il prima possibile ad intraprendere la visita specialistica.

Soprattutto, il test a casa permette di superare la prima ritrosia che gli uomini potrebbero avere, proprio per l’associazione (sbagliata) tra infertilità e virilità. L’intimità delle mura casalinghe aiuta a convincersi di fare il primo passo, quello che poi potrà portare alle importanti visite specialistiche se ce ne fosse bisogno.

Quando il test risulta positivo (quando cioè mostra una bassa concentrazione di sperma) qual è la prassi da seguire?

Si possono tranquillamente effettuare una seconda e terza prova con nuovi campioni: le condizioni del campione di liquido seminale variano infatti molto in base agli stili di vita precedenti il giorno di raccolta, e quindi avere la conferma o meno del risultato della prima misurazione. Se si conferma il dato di infertilità, è consigliato rivolgersi il prima possibile ad uno specialista che valuterà con precisione la vostra situazione e saprà indicarvi la strada migliore da seguire.

E, infine, quanto incide lo stress sul risultato del test?

Può capitare che il test risulti positivo senza che ci sia una reale infertilità, per motivi non collegati a SwimCount, tra cui lo stress. Studi scientifici dimostrano infatti che lo stress e la depressione condizionano negativamente la qualità spermatica anche se non sono ben compresi i meccanismi.

Le linee guida internazionali della WHO (organo scientifico) ci informano che il liquido seminale di una stessa persona può subire drastici cambiamenti a seconda dell’attività delle ghiandole accessorie che secernono le secrezioni in cui vengono diluiti gli spermatozoi, il periodo di astinenza sessuale, le dimensioni testicolari. Per questi e altri fattori, uno stesso individuo nel tempo può produrre liquido seminale di differente qualità, a volte buona a volte meno, e che per ottenere dei parametri seminali accurati di un individuo, può non essere sufficiente analizzare un solo campione bensì sarebbe meglio analizzarne due o tre.

Ecco perché per essere veramente certi di un eventuale risultato di infertilità, può essere molto utile ripetere il test SwimCount qualche volta in più, anche in momenti diversi.

Per approfondimenti più tecnici, consulta anche questo articolo sul sito di Swimcount.

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Sì, siamo nel 2017. Sì, la famiglia tradizionale non esiste più. Sì, la parità dei sessi è (quasi) raggiunta. Ma tutto questo sembra accada solo sulla carta, e non nel concreto. Prendiamo le faccende domestiche: a vedere la modernità dei nostri tempi si direbbe che ormai in una casa dove entrambi i coniugi lavorano le faccende domestiche siano equamente divise. Ma a smentirlo ci ha pensato l’OECD, l’Organisation for Economic Co-operation and Development, che ha mostrato come in Italia siano ancora l’80% delle donne a sbrigare le faccende domestiche. Non che in Europa la situazione sia migliore: in Russia il 64,5, in Gran Bretagna il 66%, in Francia il 73%. Ma siamo comunque tra i peggiori.

E se una campagna ci facesse riflettere su questo dato per cambiare rotta? Ecco l’hashtag lanciato da Indesit, leader nel settore elettrodomestici: #DoItTogether!

Dividersi le faccende domestiche, è arrivato il momento: una campagna di Indesit ci fa riflettere sulla divisione delle faccende domestiche in casa nel 2017

Indesit, il brand di Whirpool Italia, ha così lanciato la sua campagna #DoItTogether, diffusa in primis attraverso un video, carinissimo ma provocatorio, che mira a smuovere le coscienze.

Nel video si vede una “normale famiglia capovolta”. Ovvero: due bimbe, una mamma e un papà. Ma ad occuparsi della famiglia non è la mamma, come verrebbe spontaneo pensare, ma il papà. Un papà che tuttavia non è un casalingo, ma è un lavoratore al pari della mamma. Solo che, come quasi tutte le mamme d’Italia (nella realtà), è lui ad alzarsi prima degli altri per preparare la colazione, a svegliare il resto della ciurma, a preparare le schiscette per il pranzo, a portare l’ombrello in macchina dopo aver guardato le previsioni, a tornare prima dal lavoro per andare a prendere le bimbe a scuola, a fare la torta… Mentre la mamma gode dei benefici del “non fare niente”, perché tornata a casa dal lavoro è troppo stanca. Un eroe, quindi, questo papà lavoratore e casalingo allo stesso tempo.

Fa sorridere e fa tenerezza. Ma il messaggio alla fine è chiaro: la vostra reazione sarebbe stata la stessa se al posto del papà casalingo ci fosse stata la mamma casalinga? Probabilmente no, perché siamo troppo abituati a pensare alle mamme come a coloro che fanno tutto in casa.

Fortunatamente i ruoli si stanno mischiando, e i mariti che aiutano (così come i bambini che si impegnano nelle faccende domestiche) sono sempre di più. Ma la maggior parte delle mogli deve ammettere che il proprio uomo non sa fare la lavatrice, stirare o caricare una lavastoviglie.

Oltre al video, quindi, Indesit ha lanciato una piattaforma online che raggruppa test, video e curiosità attorno all’hashtag #DoItTogether, “Facciamolo insieme”. Il test, ad esempio, permette di capire se siamo già una “Switched family”, una “famiglia capovolta” e quindi più attenta alla divisione dei ruoli, oppure se siamo ancora impostati sulla tradizionalità. Ci sarà poi “Come ti cambio la famiglia”, una divertentissima web serie che seguirà le vicende di famiglie che hanno deciso di scambiarsi i ruoli interni, vivendo per una settimana la “vita” dell’altro.

“Quando si lavora insieme dividendosi le responsabilità, le attività quotidiane diventano più facili e i risultati si vedono!”: questa frase riassume benissimo la mission della campagna marketing di Indesit, che vuole porre il focus su un argomento che diamo ormai per scontato, a cui non pensiamo perché siamo abituati ad una visione ancora un po’ antica della famiglia. Ma questa visione non può che cambiare: la donna non sta più solo a casa ad occuparsi degli ambienti e dei figli, ma ha un lavoro proprio come il papà. Allora perché deve fare solo lei le faccende?

Dividere è semplice. Dividere è economico. Dividere è defaticante. Dividere è soddisfacente, anche per la parte che deve impegnarsi un po’ di più perché magari non è abituata. Basta poco per prendere una nuova routine, rendendosi tutti utili, aiutandosi vicendevolmente, in un circolo virtuoso che a fatica si potrà spezzare.

 

 

Kathy scorreva la sua home di Facebook e vedeva solo fotografie di mamme felici con bimbi piccolissimi, vite perfette di giochi insieme e giornate passate all’aperto, sorrisi enormi e gioia che sprizzava da tutti i pori. Ed è vero: è così, molto probabilmente su tutte le bacheche Facebook.

Kathy è diventata mamma per la seconda volta, e a lei tutti questi sorrisi sembrano lontanissimi. Perché Kathy soffre di depressione post-partum. Certo, anche lei si sentiva in dovere di mostrarsi felicissima sui social. Finché ha capito che invece è meglio aprirsi, parlare della depressione post-partum e mostrare al mondo cosa significa sentirsi male, malissimo nel periodo più bello della vita di una donna.

Una foto per parlare della depressione post-partum: il progetto fotografico di Kathy DiVincenzo per mostrare cosa significa davvero convivere con la depressione post parto

Nella prima immagine Kathy appare stanca, disordinata, stravolta. Un bambino qui, sdraiato sul suo tappetino, e la primogenita là, che gioca con le bambole. E lei al centro, con lo sguardo perso, esausto.

Nella seconda foto è tutt’altro. Sembra una mamma felice, normale, curata, riposata e appagata dai suoi figli che le giocano accanto.

Cosa accomuna queste fotografie (della fotografa Danielle Fantis)? Solo il soggetto, Kathy DiVincenzo, che purtroppo si sente davvero così. Un giorno perfetta, energica e felice. L’altro (la maggior parte delle volte) stanca, debilitata, triste, sporca.

Il 15% delle neomamme soffre di Depressione PostPartum. Maggio è stato dichiarato il Mese Mondiale per la sensibilizzazione sulla depressione postpartum, e Kathy si è sentita finalmente così coraggiosa da strappare il velo che troppo spesso è calato davanti a questo tema, nascosto da tutte le donne che ne soffrono perché impaurite che il mondo le giudichi cattive madri. Potrà essere così, potranno giudicarvi, forse (ma siamo sicuri che ci interessi, il giudizio degli sconosciuti?); ma sappiate che non lo siete. Non siete cattive madri. Nessuna di noi lo è. Siamo semplicemente madri, e la depressione è una malattia molto più comune di quanto si creda. Soprattutto in un periodo delicato come quello del post-gravidanza, con gli ormoni in subbuglio e la vita che ti travolge.

“Probabilmente ti sentirai parecchio a disagio in questo momento (esattamente come me). Ma voglio sfidarvi a spingere via questo disagio che la società ha piazzato sopra alla depressione postpartum facendomi ascoltare”.

(foto: Facebook)

“(...) È tempo di mostrare com’è davvero, la depressione, e non solo le immagini che sono “degne di Facebook”. Queste immagini rappresentano entrambe la mia vita, a seconda della giornata. Tuttavia solitamente condividerei solo una di queste foto, e questo è il problema. Poiché l’unica cosa più stressante di soffrire di questa malattia è fingere quotidianamente di non averla. Faccio il doppio della fatica per cercare di nascondere questa realtà da voi perché ho paura di mettervi a disagio. Ho paura che pensiate che sono debole, pazza, una madre terribile, e una delle altre milioni di cose che la mia mente mi convince che io sia. E so di non essere l’unica che prova queste cose.

Dobbiamo smettere di pensare che il periodo che segue alla nascita sia solo euforico, perché una volta su sette non lo è. Dobbiamo iniziare a chiedere ai neogenitori come riescono a farcela, ma in maniera più profonda, non solo ascoltando la risposta al nostro “allora, come state?” (“Benissimo!”), ma anche leggendo i segnali, i sintomi, gli indicatori di rischio.

Dobbiamo rompere il silenzio condividendo le nostre storie e lasciando che le altre sappiano che non sono da sole”.

Chiede quindi di condividere la propria storia, Kathy, in modo che le donne sappiano che è giusto chiedere aiuto, senza fingere felicità dove non c’è. E, ad ora, sono già più di 13000 i commenti che questo post ha provocato, mettendo finalmente luce sull’argomento. Perché ormai abbiamo capito che non possiamo fidarci solo delle foto sorridenti, e nemmeno delle risposte positive.

 

Mamme, non preoccupatevi: se sentite di stare male, quando vi chiedono “Allora, come stai?”, non serve rispondere “Benissimo!”. Va bene anche chiedere aiuto, informarvi (magari con un libro semplice ma davvero utile, come “Il pianto della mamma”) e condividere le vostre paure con gli altri: non potreste farvi regalo migliore!

 

 

Il contatto con il proprio bambino, le coccole, i massaggi, il baby wearing, il cullare pelle a pelle, il dormire insieme: tanti falsi miti e tante credenze si aggirano attorno al tema della corporeità con il nostro bambino, ma anche altrettante verità. Perché se c’è un aspetto importante nella genitorialità è proprio questo contatto, questa vicinanza corporea con il bambino, e per capirlo basta indagare un pochino più a fondo la nostra natura.

Parlare con il corpo tra credenza popolare e studi scientifici: smontiamo i falsi miti e vediamo insieme l’importanza del contatto corporeo tra genitori e figli

“I bambini devono addormentarsi da soli, nel loro lettino, altrimenti se prendono l’abitudine di dormire con voi non gli togli più il vizio”. “Piange? Lasciatelo piangere, altrimenti prendendolo in braccio prende il vizio”. “Se lo abitui da subito a stare tra la gente, nella ressa, in mezzo al rumore ed esposto alla luce diretta almeno imparerà ad adattarsi prima, altrimenti prende il vizio”.

“Prendere il vizio”: l’argomentazione top della zia Ignazia e della sua combriccola, ovvero di quelle signore così esperte da non poter lasciare in pace le neomamme, con i loro consigli non richiesti e soprattutto nemmeno così veri. Anzi. In questo caso specifico del contatto fisico e delle coccole è proprio il contrario, e vi spieghiamo subito il perché. 

Pensiamoci bene: l’essere umano è molto diverso dagli altri animali, poiché quando nasce è molto più indifeso, e per sopravvivere dipende interamente dai genitori, come avviene spesso con i mammiferi nidiferi. Ma non è a questi che somiglia. Piuttosto, ai marsupiali, animali che come il cucciolo d’uomo necessitano di un senso di continuità con il grembo materno. Il marsupio serve proprio a questo, a tornare per un attimo nel grembo. E come il piccolo di canguro ha bisogno di questo ritorno, così anche il cucciolo d’uomo, che necessita di contatto fisico continuo.

Questo desiderio di contatto fisico non è qualcosa di strano o sintomo di un bambino “viziato”, ma è un bisogno assolutamente primario, come la fame o la sete, che va sempre soddisfatto. E per soddisfarlo basta pochissimo, e cioè prendere in braccio il piccolo, che così a contatto sente il battito del cuore dei genitori, il senso del cullare, il movimento e il contenimento, tutte sensazioni che ha sperimentato nei 9 mesi nell’utero.

Non sottovalutiamo questi nove mesi nell’utero, mi raccomando: pensate a quanto è difficile cambiare un’abitudine, e pensate quindi a quanto per un bambino sia difficile staccarsi completamente e improvvisamente da un luogo fatto di luci tenui e ombre e suoni ovattati, fatto di massaggio continuo (da parte degli organi della mamma), di contatto fisico costante e di posizioni comode.

Ecco perché cullare il bimbo pelle a pelle, massaggiarlo, prenderlo in braccio, farlo dormire con noi e portarlo in fascia sono pratiche da preferire e da tenere in conto quando si tratta di creazione del legame e, soprattutto, di soddisfazione dei bisogni dei nostri piccoli. Pensiamo, appunto, alla fascia: si tratta di un semplice strumento che ricrea in maniera efficace l’ambiente del grembo materno, sia a livello di comodità e di posizione, sia a livello di suoni e odori, sia a livello di contatto costante. Il bello è che tenendo il piccolo in fascia non solo non gli si sta dando un vizio futile, ma gli si sta creando un ambiente che gli permette di cadere in uno stato di veglia tranquilla ottimale per l’apprendimento dell’ambiente circostante. Il benessere psicofisico che riceve lo mette in posizione di prendere più stimoli dall’esterno e di organizzarli meglio nella sua mente.

Allo stesso modo, il benessere psicofisico lo si prende anche da altri accorgimenti, come il co-sleeping e l’arrangiamento di un ambiente tranquillo e non iperstimolante per il bambino, ma anche l’uso prolungato della fascia (non solo nei primi mesi), l’allattamento a richiesta (anche per ninnare), il contatto fisico prolungato e le coccole, e cioè tutti quei massaggi e quelle stimolazioni manuali sul corpo del bambino (anche durante il cambio o prima di dormire), che sentendo il tocco sul suo corpo si sente bene: asciugarlo dopo il bagnetto, carezzarlo durante il cambio del pannolino, giocare con il tatto sul corpo attraverso filastrocche e piccole recite… Tutto questo si inserisce nell’ottica del contenimento, e cioè una modalità di cura genitoriale per fornire al piccolo un ambiente rassicurante sia a livello emotivo sia a livello fisico.

Ma quali sono nello specifico le conseguenze di questo contenimento? Assecondare questo bisogno primario di contatto e coccole significa dare al bambino le basi per una sana relazione futura con il sé e con l’altro, e a spiegarlo è uno studio scientifico di John Bowlby, psicologo britannico del secolo scorso che ha sempre sostenuto l’importanza della qualità della relazione fisica tra mamma e bimbo e introducendo il concetto di “attaccamento”, fondamentale per far sì che le sue relazioni future non siano instabili, dipendenti o guidate sempre dal timore dell’abbandono.

Secondo lo psicoanalista, basta osservare il bambino per capire le diverse fasi dell’attaccamento: per le prime dodici settimane, ad esempio, il bambino non riconosce chi gli sta attorno se non la mamma (che riconosce attraverso l’odore e l’udito), ma già dopo questo periodo si possono osservare le prime risposte agli stimoli sociali, perché inizia a interagire anche con gli estranei e attiverà criteri più selettivi, preferendo sempre la mamma. La terza fase osservabile è quella tra il sesto e il settimo mese, quando il bambino discrimina sempre più le persone con le quali entra in contatto, preferendo qualcuno ad altri, mentre a quarta fase è quella post-nono mese di vita, periodo durante il quale il rapporto con la mamma è fortissimo e stabile, visibile. La saluta, la cerca, la intende come base per esplorare il mondo, cerca protezione in lei… 

Solo così, con questo rapporto stabile e sicuro con la mamma, il bambino costruirà meglio quello con gli altri, perché è proprio a partire da quello che li sperimenta, allontanandosi e tornando, distaccandosi e sentendosi in un primo momento a disagio e poi pian piano meglio, con la certezza che la mamma tornerà sempre.

Non preoccupatevi quindi quando osserverete delle difficoltà da parte di vostro figlio quando sa che si sta per separare dalla sua figura di riferimento, e cioè dalla mamma: questa relazione è sana e importante; l’importante è che il bimbo riesca poi senza troppe difficoltà a capire e comprendere, anche rielaborandola nella sua testa, l’assenza della mamma, che è momentanea, trovando il suo equilibrio anche senza di lei.

 

Mamma Pret a Porter non è una testata medica e le informazioni fornite hanno scopo puramente informativo e sono di natura generale, esse non possono sostituire in alcun modo le prescrizioni di un medico o di un pediatra (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione), o, nei casi specifici, di altri operatori sanitari (odontoiatri, infermieri, psicologi, farmacisti, fisioterapisti, ecc.) abilitati a norma di legge. Le nozioni sulle posologie, le procedure mediche e le descrizione dei prodotti presenti in questo sito hanno un fine illustrativo e non devono essere considerate come consiglio medico o legale.

 

Come curarsi durante l’allattamento?

Lunedì, 15 Maggio 2017 08:34

Se in gravidanza siamo abituate a stare attente a tutto ciò che assumiamo (farmaci e terapie), nel momento in cui il nostro bambino nasce continuiamo ad avere paura a prendere medicinali, poiché temiamo che durante l’allattamento possa essere pericoloso.

In effetti dobbiamo fare attenzione. Gli elementi che assumiamo passano attraverso il latte anche al nostro bambino, in minima parte, dunque è corretto pensarci sempre, prima di ingerire un medicinale. Tuttavia, non è nemmeno giusto non curarsi e non assumere nulla, poiché il nostro bambino starà bene solo nel momento in cui noi stesse stiamo bene.

Vediamo quindi quali sono le regole da seguire nel momento in cui ci troviamo costrette a dover assumere farmaci durante l’allattamento.

Come curarsi durante l’allattamento: quali farmaci assumere, come scegliere e perché è sempre meglio curarsi

Quando ci pigliamo un forte raffreddore, un’influenza o un virus intestinale (anche se sono solo un esempio del malanni che possiamo prenderci durante l’allattamento), i dubbi ci assalgono: cosa posso prendere, evitando di nuocere al mio bambino? Quali sono i medicinali raccomandati? O, ancora: ma potrò prendere qualcosa o tutto fa male al piccolo?

La prima risposta che dovreste darvi è che sì, esistono terapie che non nuocciono al bambino e medicinali che possiamo prendere in tutta sicurezza. Poiché anche se le nostre intenzioni sono buone, a volte non curarsi è peggio: rimaniamo stanche, spossate, sonnolenti, e questo per il bimbo è peggio. Tante mamme, addirittura, credendo che tutti i farmaci facciano male, alla fine decidono di assumerne, ma solo interrompendo l’allattamento, che è un’altra decisione non troppo simpatica!

Se tuttavia rispettiamo qualche regola, possiamo essere tranquille di non fare male a nessuno, ne a noi stesse ne al nostro figlio lattante.

La prima? Affidarsi sempre al medico e al pediatra, che sapranno indicare sia i farmaci compatibili con l’allattamento (anche se ce ne sono molto pochi esistono, e loro sapranno consigliarveli).

Seconda regola è tenere sempre a mente che la terapia che abbiamo assunto tranquillamente in gravidanza non è sempre consigliata anche durante l’allattamento. Se pensiamo infatti che avendola assunta in gravidanza significa che è innocua potremmo sbagliarci, poiché gli effetti cambiano durante l’allattamento (anche in base alla durata della terapia, alle dosi e agli effetti collaterali). Quindi, anche in questo caso affidiamoci sempre al medico di fiducia, in modo che possa dirci sin da subito se quel determinato farmaco che prendevamo in gravidanza possiamo continuare ad assumerlo tranquillamente anche durante l’allattamento, o se sarebbe opportuno passare a qualcosa d’altro.

La terza regola è vivere tutto in serenità, informandosi bene e facendo la propria scelta in tranquillità. Perché scegliere di curarsi non è un peccato, anzi, ma una scelta che facciamo non solo nei confronti di noi stesse, ma anche del nostro bambino, che necessita di una mamma in forze!

Il medico saprà quindi indirizzarvi verso la scelta di farmaci che non hanno effetti collaterali sul bambino (oppure ne hanno molto pochi e poco rilevanti), in modo da curarvi senza fargli male. Dopodiché vi consiglierà anche quando assumere questi medicinali, in modo da ridurre le interazioni con il bambino. Ad esempio, è sempre meglio assumere i farmaci immediatamente dopo la poppata, in modo che si raggiunga il picco del principio attivo dopo 3 ore e in modo che la poppata successiva cada dopo questo picco. Meglio ancora è assumerlo dopo l’ultima poppata della sera, quella che precede il sonno, in modo che agisca mentre dormiamo.

Tuttavia se per qualche patologia non esistono farmaci compatibili con la gravidanza non preoccupatevi: sempre meglio decidere di curarsi, preparandosi prima per evitare di stoppare l’allattamento. Basta infatti preparare una bella scorta di latte materno da dare al bimbo durante la terapia, stando anche attente a stimolare la produzione del latte (continuando quindi a spremerlo - buttandolo però via, appunto per via della terapia).

In ogni caso, è presente un utilissimo servizio offerto dalla Banca del Latte del Policlinico Santa Maria alle Scotte di Siena: telefonando all’”SOS Latte Materno” al numero 800-144-111 dalle 7 alle 20 troverete sempre un esperto di allattamento al seno che saprà parlarvi di montata lattea, poppate, alimentazione, intervalli tra le poppate... Ma anche di farmaci, consigliandovi al meglio dopo aver ascoltato la vostra situazione.

 

Mamma Pret a Porter non è una testata medica e le informazioni fornite hanno scopo puramente informativo e sono di natura generale, esse non possono sostituire in alcun modo le prescrizioni di un medico o di un pediatra (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione), o, nei casi specifici, di altri operatori sanitari (odontoiatri, infermieri, psicologi, farmacisti, fisioterapisti, ecc.) abilitati a norma di legge. Le nozioni sulle posologie, le procedure mediche e le descrizione dei prodotti presenti in questo sito hanno un fine illustrativo e non devono essere considerate come consiglio medico o legale.

 

Premessa: noi italiani consumiamo tanto, tantissimo sale. Troppo. Troppissimo. Se l’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ne raccomanda non più di 5 milligrammi al giorno (e cioè un cucchiaino raso da caffè), gli uomini italiani ne assumono quasi 11, e le donne quasi 9. Impressionante, no? Quasi il doppio le donne, più del doppio gli uomini.

Il problema è che siamo abituati ad una cucina davvero salata. E quando il palato si abitua al sale, togliendolo è convinto che i piatti siano insipidi, quando in realtà è solo questione di abitudine. Anche perché usare meno sale significa esaltare meglio i sapori naturali dei cibi!

Cosa pensereste, quindi, se esistesse un’azienda distributrice di alimenti buoni, genuini, deliziosi e poveri di sale? Non ci fionderemmo. E ora possiamo farlo, perché finalmente è nata “Dal Gusto”.

“Dal Gusto”, quando il sapore non passa dal sale: la nuova azienda distributrice di prodotti poveri di sodio che ci piace perché davvero salutare

Partiamo da un concetto: il sale fa male. Per questo ho partecipato molto volentieri la settimana scorsa all’evento organizzato da Dal Gusto in occasione della Milano Food Week: attraverso l’esperienza diretta ci ha fatto capire quando inutile sia il (troppo) sale negli alimenti, e come possiamo riabituarci a gustare i cibi esaltandone il loro naturale sapore.

Insieme ad altri blogger, ho potuto visitare in anteprima il nuovo negozio in via Cerva a Milano, conoscendo il bravissimo Marco Bianchi, divulgatore scientifico per la fondazione Umberto Veronesi. Come sempre lo abbiamo sommerso di domande (nelle prossime settimane troverete su Facebook e youtube le sue risposte) e lui pazientemente ci ha risposto con consigli non solo teorici ma con tanti suggerimenti concreti per una cucina bilanciata. 

Molto interessante è stato il consiglio sul come leggere le etichette dei prodotti del supermercato. Noi guardiamo sempre i conservanti, i coloranti, la bontà degli ingredienti… E al sale, come allo zucchero, quasi non ci facciamo caso. Meglio però sempre scegliere prodotti che ne sono privi, anche perché sulle etichette non compare mai la quantità di sale, ma solo la sua presenza, e in questo modo non sapremo mai quando sodio stiamo consumando.

Il problema del consumare troppo sale non è una bazzecola. Se c’è un limite di 5 mg un motivo c’è, e questo motivo è chiaro e tondo: consumare più di 9 mg di sale al giorno mette in pericolo la salute, aumentando la pressione sanguigna e peggiorando così il sistema cardiocircolatorio. Limitarlo a 5 mg significa quindi ridurre del 40% il rischio di ictus e del 25% quello di patologie coronariche.

L’attenzione, quindi, dobbiamo porla su tutto ciò che mangiamo, e non solo sul sale che aggiungiamo abitualmente ai piatti che cuciniamo noi. Già, perché il pane, la pasta, i dolci, i cracker, i cereali per la colazione e gli alimenti più disparati contengono sale, e anche se non ce ne accorgiamo ne consumiamo già moltissimo. Facciamo quindi attenzione agli alimenti quotidiani, più che a quelli “eccezionali” come le patatine fritte o gli insaccati, che sappiamo essere ricchi di sale ma che effettivamente consumiamo più sporadicamente (e quindi limitandoli; per assurdo, dunque, fanno quasi più male i cibi quotidiani più “sani”, rispetto al junk food, quando è uno strappo alla regola).

La mission di Dal Gusto è quindi quella di proporre nei suoi punti vendita prodotti alimentari gustosissimi ma poveri di sale, concentrandosi sulla qualità ma anche sul gusto, perché è bene fare capire agli italiani che una dieta povera di sale non significa povera di sapore. Anzi!

Questi cibi selezionati sono quindi a ridotto contenuto di sale, ma sono ricchi di sapore grazie ad altre spezie o grazie al fatto di non essere coperti dal sodio. Nei negozi troviamo quindi i prodotti selezionati e di qualità divisi in categorie: a bassissimo contenuto di sale (e cioè meno di 0,10 grammi per 100 grammi di prodotto), basso (meno di 0,30) e ridotto (meno di 0,75).

I prodotti, quindi, sono finalmente acquistabili a Milano, nel punto vendita di via Cerva 1, oppure anche online, in maniera davvero comodissima e sicura, sul loro sito www.dalgusto.it

 

 Mamma Pret a Porter non è una testata medica e le informazioni fornite hanno scopo puramente informativo e sono di natura generale, esse non possono sostituire in alcun modo le prescrizioni di un medico o di un pediatra (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione), o, nei casi specifici, di altri operatori sanitari (odontoiatri, infermieri, psicologi, farmacisti, fisioterapisti, ecc.) abilitati a norma di legge. Le nozioni sulle posologie, le procedure mediche e le descrizione dei prodotti presenti in questo sito hanno un fine illustrativo e non devono essere considerate come consiglio medico o legale.

Fare giardinaggio con i bambini è una di quelle attività preziosissime che ci permettono di raggiungere moltissimi obiettivi: l’insegnamento diretto dell’indipendenza (dato che i bambini imparano concretamente un lavoro manuale guardando l’adulto), il rispetto per la natura, la pazienza nel guardare crescere qualcosa da zero… E poi la confidenza con i cibi, dal momento che piantare piccoli frutti o verdure permette al bambino di vedere direttamente da dove nasce ciò che mangia, facendoglielo amare ancora di più.

Ecco quindi qualche attività che possiamo intraprendere insieme ai nostri bambini nel giardino e nell’orto, divertendoci con un gioco che in realtà è qualcosa di utile, prezioso e sano.

Come far giocare i bambini a fare giardinaggio: il giardinaggio insieme ai bambini per insegnare loro il rispetto per la natura e per il cibo

Iniziamo dicendo subito che quella del giardinaggio non è un’attività così scomoda e difficile come si può credere. Certo, serve spazio, ma quando abbiamo a disposizione un solo terrazzino non preoccupiamoci: anche qui è possibile realizzare un piccolo ed efficiente orto con i bambini! E il bello è che chi non dispone nemmeno di quello da qualche tempo può contare sui vari orti pubblici o privati comuni sparsi per le città, che affittano a piccoli prezzi un pezzetto di terra proprio per realizzare un orto o un giardinetto di famiglia.

L’importante, con i bambini, è sempre buttare la faccenda sul gioco, e cioè rendere ludica questa attività seria, in maniera che ne colgano la leggerezza e se ne appassionino. Anche perché se ci pensiamo il giardinaggio è un’attività naturale: i bambini amano toccare la terra, affondarci le manine, cogliere i fiori, bagnare il terreno e pasticciare…

Prendete quindi il materiale necessario in modo che il gioco sia divertente e pure un “gioco di ruolo”: un bel grembiule, guanti spessi, stivali di gomma, palette, rastrelli, annaffiatoi… E poi iniziate con il gioco del giardiniere, che potete fare sia in giardino sia in casa: basta infatti un vaso per giocare alla semina, per poi passare, se volete, alla terra “vera”.

Scegliete insieme a loro un fiore o una piantina e comprate i semini appositi. Dopodiché dategli il necessario, e cioè il vaso, la terra, i semi e l’acqua, e lasciate che siano loro a riempire il contenitore, sporcandosi, pasticciando e divertendosi. Scrivete poi sul vaso la varietà di fiore o pianta che avete seminato e nei giorni successivi fate sì che il bimbo se ne prenda cura, ricordandoglielo magari i primi tempi e prendendola poi come abitudine. Quando i primi germogli inizieranno a spuntare il gioco diventerà ancora più emozionante e coinvolgente, e sarà quindi molto più educativo (poiché è qui che i bambini fanno l’esperienza dei frutti della pazienza!).

Il gioco del giardinaggio ha poi moltissime varianti e declinazioni: potete scegliere di piantare dei bulbi in casa creando piccoli giardini decorativi; fare ricrescere i cibi dai loro scarti; coltivare dei tulipani, che possono essere piantati in inverno in un vaso casalingo e che crescono poi in primavera…

Pian piano potrete poi passare agli orti veri e propri, e qui i bambini si divertiranno ancora di più, imparando la lezione più bella, e cioè quella del rispetto della natura che ci offre i suoi frutti come cibo. Già, perché piantare zucchine, pomodori, cipolle, fragole, more e compagnia bella è davvero entusiasmante: i bambini assistono al processo di crescita dall’inizio alla fine, e quando nel piatto si troveranno la zucchina che hanno coltivato con le loro mani sarà una soddisfazione immensa. E ne apprezzeranno il sapore ancora di più, in generale! Ecco perché è importante il giardinaggio: per prendere confidenza con la natura, per apprezzare i suoi prodotti e per far sì che i bambini amino tutto ciò che da lei arriva.

 

 

 

 

Per vitamina D si intendono tutti i composti che presentano l'attività biologica del calciferolo. Ci sono diversi tipi di vitamina D: il colecalciferolo (vitamina D3) è la forma naturalmente presente e più importante nei mammiferi.

L'uomo è in grado di sintetizzare il colecalciferolo a partire da un precursore, con funzione di provitamina: il deidrocolesterolo (derivato dal colesterolo). Questa provitamina si trova nella pelle, in modo da assorbire l'energia solare che provoca la produzione di colecalciferolo. Un'adeguata esposizione al sole riduce quindi il fabbisogno di vitamina D. 

Dal punto di vista nutrizionale le maggiori fonti di questa vitamina, sebbene sia necessario consumarle in quantità elevate, sono il pesce (in particolare merluzzo, salmone, sgombri, aringhe e acciughe), uova, frutta secca (noci, mandorle e anacardi) e verdure verdi. 

Le funzioni benefiche della vitamina D sono innumerevoli: è essenziale per il mantenimento dell'omeostasi del calcio e del fosfato, quindi fondamentale per le ossa. Il calciferolo agisce con un meccanismo d'azione ormone-simile e questo fa intuire come la sua azione sia coinvolta in diversi distretti dell’organismo: è importante per la funzionalità tiroidea, intestinale e per il sistema immunitario. Essenziale per le donne che si prestano ad entrare in menopausa, al fine di evitare osteoporosi.

Addirittura nei neonati viene integrata per lo sviluppo del sistema nervoso.

I parametri di riferimento indicano un valore che deve essere superiore ai 30 ng/ml, ma si parla di carenza vera e propria sotto i 20 ng/ml. In base alla letteratura scientifica, recenti studi hanno evidenziato come livelli ben oltre i 30 ng/ml (si parla di 70-80-90 ng/ml) sono fondamentali per la prevenzione di varie patologie infiammatorie. Purtroppo la valutazione della vitamina D non è tra i parametri maggiormente richiesti e anche quando analizzata si tende a sminuirne il suo eventuale deficit. Fondamentale a quel punto una corretta integrazione e una rivalutazione nel tempo, per tenere sotto controllo e soprattutto prevenire alcune possibili infiammazioni.

Dr. Alessio Tosatto

Nutrizionista IMBIO

 

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Sara

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Cecilia

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