La storia di Sara Guerriero, quando il mobbing è davvero troppo
Il 13 marzo sapremo qualcosa di più: è fissata infatti per quel giorno l’udienza davanti al giudice. Il motivo? In poche parole, Sara è diventata mamma, la sua azienda l’ha trasferita a più di 250 km di distanza. E via con la denuncia, passo obbligato da un sistema che quando decide di licenziarti e non può farlo ricorre a tutte le strategie più basse.
La storia di Sara Guerriero, quando il mobbing è davvero troppo: se diventare mamma diventa un intralcio per il datore di lavoro, dobbiamo lottare per i nostri diritti
Ed ecco quindi la storia di Sara Guerriero spiegata passo passo: Sara lavora per un’azienda tricologica italiana, la Farmasuisse S.r.l. (o Istituto Helvetico Sander, per come la conosciamo). Poco tempo fa è diventata mamma, e guarda caso l’azienda ha deciso di trasferirla da Cosenza a Salerno. Via da casa, insomma. Mica facile decidere così su due piedi. Soprattutto con un bambino piccolo.
A molte verrebbe in mente di licenziarsi, è normale. Ma è proprio questo l’intento dell’azienda: spingere al licenziamento una persona che non potrebbero licenziare ma che in quel momento sta loro stretta. Perché la legge in effetti tutela le mamme: al datore di lavoro è vietato licenziare la madre lavoratrice dall’inizio del periodo della gravidanza sino al compimento di un anno d’età del suo bambino.
No, Sara non vuole licenziarsi. Quel lavoro è giustamente un suo diritto. Ed è così che ha deciso di lottare, portando anche alla luce la sua storia (grazie ad un articolo uscito sul “Manifesto”, scritto da Claudio Dionesalvi e Silvio Messinetti). Ha fatto quindi ricorso con il suo avvocato Giuseppe Lepera (in sede civile ai sensi dell'ex articolo 700 - provvedimento d'urgenza - del Codice Civile) e l’ha vinto.
Ma l’azienda farmaceutica non ha accettato la sentenza del giudice Silvana Ferrentino (la decisione era che il trasferimento non era accettato, dal momento che la scusa dell’azienda, e cioè un “calo di redditività della sede” era chiaramente solo una scusa - e pure falsa) e l’ha comunicato a Sara. Che l’ha comunicato al suo nuovo avvocato, Elena Montesano. Che ha quindi sporto immediatamente, insieme all’avvocato Lepera, un’altra denuncia-querela al procuratore della Repubblica di Cosenza contro l'azienda, per non aver rispettato la sentenza della Ferrentino. Ecco di cosa si tratterà il 13 marzo: della nuova udienza relativa al secondo ricorso di Lepera a seguito della seconda lettera di trasferimento che Sara ha ricevuto dall'azienda pochi giorni dopo la prima sentenza della Ferrentino che dichiarava il trasferimento illegittimo e discriminatorio e ordinava il reintegro immediato a Cosenza.
La storia di Sara fa riflettere moltissimo. Come può un’azienda potersi ancora nascondere dietro al dito del “il trasferimento è un nostro diritto poiché in questo momento c’è bisogno così” quando, palesemente, si tratta di vessazioni per spingere un elemento al licenziamento spontaneo? Come si può cedere a questo sistema? E come si può dire di “sì” quando ti peggiora la vita e dire di “no” peggiorandola ulteriormente?
L’altra considerazione allarmante sorge se guardiamo i numeri diffusi dall’Osservatorio Nazionale Mobbing, poiché i mobbing strettamente legati alla maternità sono davvero moltissimi. Dal 2011 al 2016 i casi in Italia sono aumentati addirittura del 30%. Negli ultimi due anni almeno 350.000 donne (sì, 350.000!) sono state discriminate a causa della maternità, per il semplice fatto di essere rimaste incinte o perché hanno chiesto, come loro di diritto, la possibilità di conciliare lavoro e famiglia.
Questi dati fanno orrore. Le aziende considerano le mamme lavoratrici un peso. E non sapendo come “sbarazzarsene” ricorrono a tristi trucchetti che purtroppo la maggior parte delle volte hanno successo.
Ma che ne è della maternità tutelata? Ma nessuno guarda ai paesi nordici, nei quali le mamme e i papà hanno molti più diritti e permessi e l’economia continua ad essere impeccabile?
Alla fine resistere diventa difficile e doloroso. Non tutte hanno la forza di Sara. Tuttavia, un aiuto esiste. Quando sentite di essere vittime di questo bullismo psicologico da parte della vostra azienda, rivolgetevi all’Osservatorio dedicato o alla Consigliera di Parità. Sapranno certamente consigliarvi come procedere, come difendervi. E soprattutto ricordatevi che non siete sole, che non siete solo voi in questa condizione, e che l’unico modo per evitare che il fenomeno continui a diffondersi è, almeno, alzare la voce e dire a tutti il trattamento che state ricevendo.